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La cioccolata è tutta una faccenda di religione. Dai Maya sino alle corti barocche europee questa sostanza chimicamente complessa, di color marrone scuro, gradevolmente amara, e che noi chiamiamo cioccolato, non avrebbe avuto successo senza uno stretto rapporto con le religioni che ha incontrato sulla sua strada. Senza i sacerdoti dei popoli che abitavano tanto tempo fa la regione del mondo che chiamiamo Centroamerica – Olmechi, Maya, Aztechi –, senza i frati francescani, le suore e i gesuiti in Spagna e in Italia nel Seicento, i semi del cacao, da cui si ricava la cioccolata, non avrebbero assunto l’importanza che hanno avuto per diciotto secoli.

Wolfgang Schivelbusch nella sua storia dei generi voluttuari sostiene non senza ragione che la cioccolata è strettamente legata al mondo cattolico, così come il caffè a quello protestante. Il “brodo indiano”, com’era chiamato il cioccolato liquido da bere, è associato all’ aristocrazia, alla regalità e alla Chiesa, con la sola eccezione dell’Inghilterra; così che, quando la Rivoluzione alla fine del Settecento rovescia le istituzioni dell’Ancien Régime, e dal barocco si passa all’età dei Lumi, quel brodo lascia il posto alle bevande calde preferite dai philosophes nei loro salotti illuministi: tè e caffè. L’ultimo “cioccolato dipendente”, scrive Michael D. Coe nel suo studio La vera storia del cioccolato (Archinto), sarebbe stato il marchese De Sade.

Quindi si entra nella storia moderna del cioccolato: un chimico olandese, Van Houten, nel 1828 brevetta la lavorazione di un nuovo tipo di cacao in polvere con un bassissimo contenuto di grasso. Il cioccolato diventa solido, non viene più mescolato con acqua, bensì distribuito in tavolette. Saranno i membri della religione quacchera, nuovi esponenti del capitalismo, a diventarne i produttori. Ma andiamo con ordine. Gli scopritori, se così si può dire, della pianta di cacao e del suo seme sono gli Olmechi, che declinarono nel 400 a.C. lasciando il posto ai Maya, civiltà che ebbe dal 250 al 900 d.C. il suo periodo classico. Da loro viene il cioccolato. La pianta si chiama Theobroma cacao, nome attribuitogli da Linneo nel 1753; la prima parte del nome significa “cibo degli dei”. Allo scienziato svedese era noto che così veniva considerato il “brodo”dalle popolazioni centroamericane.

Si tratta di una pianta difficile da coltivare, che fruttifica solo a 20 gradi a nord e a 20 gradi a sud dell’equatore, e ha bisogno di un particolare tipo di moscerini per esser impollinata; fiorisce su piccoli cuscinetti del tronco e sui rami più grandi, secondo uno schema che si chiama “caulifloria”. Il chicco di cacao è dentro una polpa bianca di gradevole sapore; solo dai semi si ottiene il cioccolato. Maya, toltechi e aztechi riservavano questa bevanda all’élite, aristocrazia, membri della corte, imperatore, e anche ai guerrieri. Come racconta Coecon dovizia di particolari – ma le fonti sono solo spagnole –, la cioccolata era legata ai sacrifici umani. I semi poi erano così preziosi che fungevano da denaro.

Ma com’è arrivato in Europa il cacao-cioccolato? Cristoforo Colombo nel suo quarto e ultimo viaggio nel 1502 s’imbatté per primo in una canoa mercantile maya che recava, tra le altre cose, chicchi di cacao. Colombo tuttavia non assaggiò mai il cioccolato. Prima che la moda di berlo prendesse piede, dovettero cambiare molte cose in Europa. I maya non ebbero mai la passione per lo zucchero, che invece fulminò gli europei, ma questi ultimi dovettero attendere la ibridazione tra le varie culture per apprezzare il cioccolato; la loro idea era di berlo caldo e non freddo, come facevano gli aztechi; poi gli unirono lo zucchero e le spezie del Vecchio Mondo (cannella, anice, pepe nero) o il gelsomino in Toscana. Il nome stesso è un ibrido. Chocolate era parola usata dagli spagnoli e non dagli indigeni; sembra che i Conquistadores avessero preso il termine maya chocol, sostituendo il termine maya per indicare l’acqua haa con l’azteco atl, da cui alla fine viene fuori chocolate.

Per quanto sia stato il Rinascimento a incontrare il cacao, la cioccolata è barocca per eccellenza. Era la bevanda d’élite dei centroamericani, “uomini coperti di piume e dalla pelle color rame”, diventò quella dell’ aristocrazia e nobiltà europea, “uomini con enormi parrucche, dalla pelle bianca, profumati e con troppi vestiti”. All’inizio fu come lo zucchero una medicina, legata alla teoria degli umori di Galeno. Grazie alla cioccolata entrarono nel Vecchio Mondo due alcaloidi, meglio metilxantine: la teobromina e la caffeina, stimolanti seppur blandi del sistema nervoso centrale.

A diffonderli furono gli appartenenti ai vari ordini religiosi, in particolare i gesuiti, che si arricchirono con i semi di cacao. Ci fu un’ostilità iniziale della Chiesa, aggirata con un escamotage: essendo una bevanda non interrompeva i periodi di digiuno ecclesiastico, un tempo fondamentali nell’Europa cristiana. Schliwerbusch sostiene che il cioccolato fu meridionale, cattolico e aristocratico, mentre il caffè era settentrionale, protestante e borghese. Entrambe le bevande contrastarono il dominio dell’alcol rovesciando, come scrive Piero Camporesi, il regno di Bacco, portando nel contempo alla fine del banchetto rinascimentale e barocco. Il Settecento lo frantumò in una serie di cerimoniali intimi, con signore e signori che sorbiscono a letto la loro bevanda, in una progressiva privatizzazione del tempo, dalla colazione del mattino alle cerimonie pomeridiane: “Cioccolatiere, teiere, caffettiere, sorbettiere si spartiscono le ore della giornata e scandiscono i tempi delle quattro stagioni” (Camporesi).

L’ultima stagione del cioccolato è quella che vede apparire gli imprenditori quaccheri con il cioccolato da mangiare. I loro nomi: Fry, Cadbury, Rowntree, Terry. Siamo già alla fine dell’Ottocento e all’inizio del Novecento. Appare anche Milton S.Hershey, l’Henry Ford del cioccolato. Con lui nasce Hershey, città utopica del cioccolato, dove tutti lavorano nella grande fabbrica che produce i celebri “Kisses”. Willy Wonka, il protagonista de La fabbrica di cioccolato di Roald Dahl non è un’invenzione; è esistito davvero. La Cadbury, ad esempio, chiuse nel 1970 la visita alla sua fabbrica per timore di veder sottratti i suoi segreti, ma intanto aveva creato vicino a Birmingham un’altra città del cioccolato: Bournville. Declinata la bevanda degli dei, resta il cioccolato solido con i suoi concorsi a premi per cui un Charlie Burcket qualsiasi – il ragazzino del romanzo di Dahl – può vincere una tavoletta d’oro. In realtà il vero oro per secoli è stato il cioccolato stesso.

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Di Massimo Prandi

Massimo Prandi